7 febbraio 2007

IMPRESSIONI DAL MALI

Il viaggio continua, anche se questa volta in giro per il mondo non ero io ma un  amico. Un viaggio in Mali, uno degli Stati più poveri dell’Africa.






             Per chi, come me, non aveva mai messo piede in una città africana, Bamako non poteva non riservare che forti sorprese. Colui che cercasse una piazza, un complesso monumentale, una qualche forma urbanistica convenzionale di centro cittadino, rimarrebbe certamente deluso e disorientato: la capitale del Mali, stato sub-sahariano vasto quattro volte l’Italia e popolato da circa 11 milioni di persone, è un enorme villaggio, una distesa di bassi edifici celati nel verde degli alberi, solcato da poche strade e viali asfaltati e da un’intricata ragnatela di sterrati che danno colore e polvere a tutta la città.

Ed è proprio ai margini di queste strade polverose e follemente dissestate che vive la capitale di uno dei paesi più poveri del mondo. Irrinunciabile prolungamento delle anguste e affollate residenze familiari, le strade offrono prezioso spazio ad ogni genere di attività e di commercio, ai giochi dei bimbi e, nei giorni che precedono il 30 dicembre, la festa musulmana del Tabaski, alla dimora di migliaia di mansueti montoni, che ogni famiglia, pregustandone il succulento sacrificio, si procura in ogni modo di acquistare, in un esemplare da posteggiarsi legato all’albero o al paletto fuori casa.

L’amico Chanana mi porta in visita ad una parte della sua numerosa famiglia, nel centro della città. Uno stretto e basso portale, come una breccia nel muro screpolato sul lato della via, dà accesso al piccolo cortile cui si affacciano pochi oscuri locali.  Terminato da poco il pranzo, le bambine stanno al centro del patio con i secchi al suolo, lavando le pentole e le stoviglie d’alluminio. La nonna ci accoglie seduta sul piccolo sgabello a capo del cortile, i piedi scalzi, al suolo i semi del cocomero, la veste lunga a disegni in giallo vivo. I nipotini ci portano le seggiole e ci accomodiamo; giungono gli altri bambini che mi si fanno intorno curiosi e sorridenti, qualche saluto in francese, ma la lingua è il Bambara. La visita è breve; torniamo poco dopo a prelevare la nonna, con due nipotine e un maschietto che fanno di tutto per salire pure loro sulla jeep, e la portiamo dalla sorella, a un isolato di distanza.

Altro cortile sbrecciato, affollato di bambini, ci accomodiamo su minuscole seggioline, all’ombra, accanto al fornellino a carbonella sul quale la nipote maggiore sta tostando le arachidi zuccherate, mentre si fascia il fratellino di pochi mesi sulla schiena. Assaporiamo il dolce omaggio ed è l’ora di ripartire.

La semplicità della gente, il sorriso dei bambini, affascinano al pari dello strano paesaggio di savana e di steppa attraversato in due lunghi giorni di viaggio verso est.                    

Un’unica strada in asfalto collega i pochi centri urbani sulla direttrice del Niger: Ségou, Djenné, Mopti, Gao. E’ un lungo succedersi di piccoli villaggi di contadini e pastori, che salutano il passaggio delle rare auto. Le donne battono il miglio nei mortai, gli uomini trasportano legna, i bimbi pascolano capre e bovini tra i resti della mietitura, all’ombra imponente dei baobab. Al crepuscolo, nei pressi di San, incrociamo qualche camion pericolante carico di legname; sopra il carico, in alto, i braccianti che salutano; le famiglie in abiti sgargianti rientrano dai campi sui carretti trainati dagli asini.

Sulla strada di Hombori un velo di finissima polvere è teso nell’aria e attenua ogni contrasto di luce. Ne affiorano, in un’illusoria distanza,  le alte torri dorate della Main de Fatma e più avanti la lunga fascia granitica del Monte Hombori, con i villaggi di pastori alle pendici.

La rifrazione dei raggi solari e il vento di montagna limitano il calore del giorno; pare un crimine non trovare compagni disposti ad una via sulle torri e ripiegare sul maggiore degli innumerevoli blocchi disseminati ai loro piedi.

Ma al limitare della steppa si scorgono le dune del Sahara e tra le pietre del villaggio sbucano in un coro di grida la piccola Aisha con i fratellini e i cuginetti a mostrarci festosi e fieri le loro biro Bic a pulsante, nuove fiammanti. Le bimbe le tengono inforcate al collo della vestina impolverata, come si fa con i gioielli preziosi. A noi rimane nel cuore, incancellabile, la loro contagiosa allegria, che è forse il vero volto, il più enigmatico, di uno dei molti popoli che ancora oggi si ostinano a trarre alimento e vita dalle terre più severe del pianeta.

Testo e foto di R.M.