17 dicembre 2009

VIAGGIO IN SIRIA 2008-2009


Era da un pò che chiedevo a Francesca e Stefano di raccontare il viaggio in Siria.
C'è voluto un anno ma ecco il diario della loro particolare esperienza:
vale la pena impegnare qualche minuto per leggero
e chissà...  potrebbe diventare un suggerimento per le imminenti vacanze natalizie!


di Francesca e Stefano

Ale, Lorenz, Benny, Francesca e Stefano. Atterriamo all’aeroporto internazionale di Damasco il 27 Dicembre 2008, dopo un buon volo con Turkish Airlines da Malpensa con cambio a Istanbul/Ataturk. È stato magnifico, come mondo di fiaba, sorvolare la Cappadocia innevata e poi atterrare in Siria, paesaggio lunare, di terra marrone e a tratti rossiccia, nel tramonto rosa. Un’ora e mezza per timbrare i passaporti in ingresso: la lentezza ci accompagnerà per tutto il viaggio e ci piace, perché insieme all’Inshalla pare la chiave di volta del motus vivendi et pensandi di queste genti, così diversa dalla nostra frenesia occidentale. Fumo nei locali pubblici, suoni, voci e odori del mondo mediorientale. Donne e bambini. L’unica cosa che avevamo prenotato dall’Italia insieme al volo, l’hotel per la prima notte, è in realtà tutto pieno, non c’è posto per noi, ma è sera quando entriamo nel cuore di Damasco e allora i gestori ci trovano un altro posto per dormire. Per fortuna abbiamo i nostri sacchi a pelo e salviette. Cena al Al-Kamal, molto buono e con clientela solo locale.


28 dicembre

Damasco dalla mattina (prima che si svegli, giriamo per i vicoli dove incontriamo pochissime persone comuni) fino alla notte. Le strade stupiscono per la pulizia – a tratti però ricordano le strade dell’India per i mercanti ai bordi e il caos viario rumoroso. In giro non c’è affollamento. Palazzo Azem appena riaperto dopo il restauro è meraviglioso e il cortile della moschea degli Omayyadi sembra un disegno di fiaba regale, pieno di bimbi e bimbe che sgambettano allegri e comitive di iraniani vestiti di nero e visi mongoli/asiatici in pellegrinaggio. Fa un certo effetto visitare la Casa di Anania, dove S.Paolo fu istruito nella fede cristiana. La sera, dopo cena, giro al Jabel, il monte che sovrasta la città, con un tassista 25enne pazzo e il suo microtaxi in cui ci pigiamo in 5. Damasco conserva le testimonianze del suo passato millenario nei monumenti di età ellenistica e bizantina, nelle rovine di epoca romana, nelle splendide moschee, nell’atmosfera del pittoresco suq e nei palazzi più suntuosi e rinomati, ma ci pare non abbia la regalità delle capitali orientali: è tutta vicoletti grigi, anche se con belle peculiarità, e a tratti è rovinata da scempi urbanistici, certamente frutto di una pianificazione sregolata. Cominciamo a percepire quanto le persone siano veramente ospitali.

29 dicembre

Viaggio Damasco-Palmyra in autobus pubblico, in compagnia di un giapponese (Shin, che resterà con noi fino al 2 gennaio) e un marocchino (che lavora in Siria per una compagnia petrolifera canadese e ha una sorella a Bergamo!) con cui condividiamo i dolcetti comprati per colazione e racconti di viaggio e di vita. Attraversiamo il deserto roccioso a tratti con sabbia. Panorama infinito aridissimo. Viaggio interminabile…con autista e altri che fumano! A Palmira si trovano i resti dell’antica città romana, mitica per il ricordo delle vicende storiche legate alla regina Zenobia ed al suo sogno di rivaleggiare con Roma. Le prime notizie dell’antica Tadmor risalgono al testo di una tavoletta assira del II millennio a.C. La leggendaria città si arricchì e prosperò con la riscossione dei tributi imposti alle carovane che vi transitavano, cariche di merci preziose, seguendo le antiche e tradizionali rotte commerciali tra il Mediterraneo e l’Oriente. L’importanza di Palmira è ancora oggi testimoniata dalla bellezza dei suoi monumenti, il Tempio di Bel, l’arco di trionfo ed il grande colonnato, il senato, il teatro ed i templi, resi ancor più maestosi dalla cornice naturale in cui si trovano, un'oasi rigogliosa in pieno deserto siriano. Visitiamo Palmyra col supporto del grandissimo Zaccaria e del suo piccolo furgoncino per 5 dove saliamo in 11, ospitando 4 ragazzi di Hong Kong. Palmyra è molto suggestiva, fa caldo (25°C) e oltretutto non c’è quasi nessuno – nel teatro siamo solo noi. L’essere soli nei luoghi che visitiamo è un fatto che ci accompagnerà per tutto il viaggio, stupendoci molto vista la bellezza di questo Paese…ma chiaramente facendoci molto piacere! Dormiamo nella casa di un affarista, ma il vicino, un ragazzo 24enne molto ospitale, ci invita la sera per un tè dialogante nella megacasa che cura per conto di un croato. Dove dormiamo c’è una stufa a gasolio pazzesca: continuamente cadono gocce di gasolio dal serbatoio posto in alto e vanno ad alimentare il fuoco che brucia nel piccolo vano inferiore. Dev’esser molto diffuso questo tipo di riscaldamento (infatti nei giorni successivi noteremo che in tutti gli ambienti si usa), anche perché nel nostro viaggio abbiamo incontrato molte persone con il volto sfregiato.

30 dicembre

Partire da Palmyra è stato logisticamente difficoltoso. Il primo autobus d’inverno parte alle 10, ma ancor prima è difficile trovare la stazione, che è sostanzialmente un chiosco che vende datteri e olive – dove riusciamo a farci offrire un tè da un siriano 49enne di Mari e da suo padre, emigrati per lavoro a Dubai, rientrati per cure mediche.Sull’autobus le donne salgono per ultime. Sono tutte coperte. Anche io vengo obbligata a sedermi accanto a una ragazza. Rotta per l’oriente siriano. Arriviamo a Deir Ez Zor, città sull’Eufrate, conosciuta nell’antichità con il nome di Ozara; il suo guado sul fiume permise il passaggio di armate e carovane durante i secoli e la storia recente ha visto accrescere il suo ruolo grazie alla costruzione della diga sul l’Eufrate ed alla scoperta di giacimenti petroliferi nella regione. Andiamo nell’hotel economico indicato nella guida giapponese di Shin: fa veramente schifo, ma tiriamo di brutto sul prezzo e prendiamo una camera dove dormiremo tutti insieme per un totale di 15€. Prendiamo due taxi e corriamo a visitare prima che cali il sole Dura Europos: antico porto fluviale e stazione carovaniera seleucide risalente al 300 a.C., quindi avamposto dei Palmireni contro la minaccia persiana. Gli edifici inglobati nelle mura di fango ci hanno restituito una serie di pitture murarie testimonianti le prime tradizioni cristiane e giudaiche, conservate oggi in diversi musei. Il sito è molto vasto e bisogna lavorare con la fantasia, ma arrivando al limite orientale la vista è da pelle d’oca, un’emozione incredibile! Rovine in terra rosa-rossa, il fiume epico, originario, l’Eufrate, i campi coltivati verdissimi e le case fatte di terra….mi ricorda tantissimo le immagini del libro delle elementari quando si è studiata la “mezzaluna fertile”… Questa zona della Siria inizia ad essere davvero remota: siamo a pochissimi silometri dall’Iraq e moltissimi di quelli che erano hotel quasi di lusso ora sono il ripiego abitativo per i tenti rifugiati iracheni che sono arrivati in città nel corso degli scorsi anni. La sera, al buio, giro di Deir Ezzor, città vivacissima.


Cena in un tipico chiosco dove i gestori sono molto simpatici. Mangiamo bene e in quantità. Anche i dolcetti sono buoni. Il tutto per €1,20!!! Shin il giapponese è sempre con noi, pare si diverta. Ale ha battezzato Lorenz, il nostro MonacoShaolin, nell’Eufrate. Sulla strada per Dura Europos questo pomeriggio abbiamo visto i campi profughi dei palestinesi e due auto da cui la gente sparava in aria per salutarsi.
31 dicembre

Autobus pubblico, sempre della KADMUS, per Raqqa, città costruita in mezzo al deserto, giardino irrigato da un complesso sistema di canali e oggetto di infinite cure fino al XIV secolo. Oggi si fa fatica a immaginare quella che fu la città delle Mille e una notte, residenza preferita del grande Harun Al–Rashid. Piccola borgata turkmena nel secolo scorso, è salita al rango di capitale provinciale, conservando tuttavia un aspetto rurale, con strade polverose d’estate e impantanate d’inverno. È incredibile veder nevicare (fiocchi soffici, come manna) sul paesaggio mesopotamico di tende, palme e case di terra e calce. L’autobus al completo scarica solo noi ad un bivio a 6km da Raqqa. Nevica fortissimo. Non sappiamo che fare. Fortunatamente passa un taxi: è piccolissimo ma riusciamo a pigiarci dentro tutti e 6 con gli zaini. Il vocabolario di arabo è fondamentale come non mai: riusciamo a far capire al tassista che vogliamo prendere un mezzo che ci porti a destinazione. Arriviamo in un cortile dove il tipo ci dice di aspettare che chiama un amico che ha un minivan. Fa freddo, continua a nevicare, per terra fango misto a neve sciolta. Una donna sorridente ci invita in casa sua dove il marito e le figlie ci accolgono con tè caldo, dolcetti e fumo. Parliamo di noi, del lavoro, delle famiglie. Ci tengono ad ospitarci per la notte. Le figlie sono bellissime. Quella di 19 anni ha un figlio di 14 mesi e uno di 3 mesi. Anche qui il vocabolarietto è fondamentale per capirsi, per avere uno scambio comprensibile. Anche se più di tutto possono gli sguardi e i sorrisi.

Prima di lasciare Raqqa la polizia registra ancora i nostri passaporti. Anche ieri, in ingresso e in uscita. Partiamo con un piccolo microbus alla volta del castello sul lago Assad Al-Assad , dove si dice si possa nuotare e prendere il sole sulle rive del lago verde.

Musica araba velocissima. Arriviamo e tutto è coperto dalla neve che scende copiosa. Dal castello Qal’at Jabal non si vede nulla, solo l’acqua più vicina. Ci fermiamo a scaldarci e a mangiar pesce. Qui non nevicava dal 1991. Ripartiti attraversiamo l’immenso ponte/fronte della diga. Percorriamo molti kilometri, ovunque ci sia una bandiera siriana ce n’è anche una palestinese. L’Iraq è vicino: sul percorso vediamo un’enorme centrale termoelettrica, una raffineria di petrolio e un’interminabile fila di camion cisterna che trasportano il petrolio, anche con targa di Baghdad. Il paesaggio è molto particolare: sembra tramonto nelle tundre, nelle più remote regioni a nord est della Russia.

Arriviamo ad Aleppo che il buio è già calato. Il nostro minivan per questioni di permessi fra città non può entrare e quindi ci infiliamo zaini in spalla nelle vie caotiche di questa che pare una grande città e cerchiamo un posto per dormire. Scegliamo Hanadi: camere di un rosa imbarazzante, ma pulizia eccellente, cortili a cielo aperto. Ci riposiamo 1 ora, aspettiamo l’acqua per fare la doccia calda, poi usciamo alla ricerca di un luogo dove mangiare. Camminiamo nelle vie del suq completamente chiuso e a tratti buio pesto.


Aprendo una porta in legno che ci incuriosisce scopriamo nel sotterraneo un grande hammam maschile. Il vapore caldo ci bagna la faccia. La grande moschea illuminata è molto bella. Capodanno in un localino dalle volte di pietra e poi in piazza dove c’è la torre con l’orologio. I festeggiamenti sono sobri, visto che ufficialmente sono vietati per volere dell’attuale presidente della Siria Bashar al-Assad, per “solidarietà con i fratelli palestinesi, per la strage ed il massacro perpetrati contro di loro da Israele”. La Siria considera la Palestina parte del proprio territorio attualmente occupato dagli israeliani. Noi festeggiamo quieti, in una camera, con il panettone portato da Benny, e il whisky offerto da Shin. Buon 2009!
1 gennaio 2009

Colazione non prevista nel cortile all’aperto. C’è una luce bellissima, sole pieno, anche se fa molto freddo. Visitiamo la cattedrale maronita, la chiesa greco-cattolica, quella siro-cattolica e quella greco-ortodossa. Alle 10 partecipiamo alla messa di rito armeno nella cattedrale armena. Rito cantato, teatrale, molto sacrale. Preti con vesti coloratissime. Nel raggio di 2 Km è incredibile veder concentrate così tante liturgie differenti. Documenti provenienti dall’antico regno di Mari attestano che Aleppo era già al centro di un potente stato nel XIII secolo a.C. Città chiave dei commerci tra Asia e Mediterraneo, vide il passaggio dei principali popoli dell’antichità e, dopo la conquista araba, divenne un centro di primaria importanza. Girovaghiamo per Aleppo che s’è svegliata, visitando i luoghi più interessanti. Nel suq pranziamo in un bugigattolo dove servono hummus e ceci fritti con olio caldo: qui mangiano solo le persone locali, principalmente i lavoratori del suq. Si sta bene, si mangia bene e ci prendono in simpatia. Un ragazzo che parla italiano perché amico degli archeologi nostri conterranei che scavano ad Ebla ci invita nel suo negozietto nel suq per offrirci il chay. È gentile e parliamo di molte cose. Alla fine siamo noi a chiedergli di farci vedere i gioielli che crea.

Ci addentriamo nella cittadella, città in pietra dentro la città viva situata all’estremità orientale del suq, circondata da un fossato profondo 20 m. e largo 30. Dopo averla visitata beviamo un tè caldo perché fa molto freddo. Riusciamo ad attaccar bottone anche con i gestori e ci rifugiamo con loro nella cucina dove stiamo a chiacchierare scroccando altri tè. Nel pomeriggio alla grande moschea non potendo entrare con i maschi sono rimasta al sole nello splendido cortile con altre donne. Una bimba inizia a giocare con me ed è la scusa perché la sua mamma e le altre donne si avvicinino e si instauri un allegro dialogo, fatto di sorrisi, parole lette sul vocabolario, carezze, foto alle bambole e a noi insieme. Mi invitano insieme a mio marito a casa loro, ma alla fine purtroppo non andiamo perché Ale e Lorenz sono rimasti incastrati fuori dalla moschea risucchiati dalla folla di un funerale. Io entro nella moschea femminile, dove alcune donne pregano, ma moltissime altre chiacchierano e si mostrano a vicenda gli acquisti appena fatti. È uno spazio intimo, inaccessibile agli uomini. E si percepisce la libertà di tessere le reti fra donne.

Calato il sole ci concediamo bagno e massaggi in hamman separati e poi per finire in grande questo primo giorno dell’anno andiamo a cena da Beit Sissi, uno dei più rinomati ristoranti di Aleppo ubicato nell’incantevole cornice di una casa del XVII secolo, cibo ottimo, locale bellissimo, ma concordiamo che a livello umano la cena migliore è stata quella a Deir Ez Zor! Compriamo kiwi e biscotti al pistacchio per la colazione di domani.

La cosa fantastica del suq di Aleppo è che è il vero mercato dove le persone locali vanno a fare le spese.

2 gennaio

La mattina di buonora (c’è anche il sole, come ieri) contrattiamo con l’autista curdo di un minivan (tutto scassato con le porte che non si chiudono) per spostarci da Aleppo e visitare le Città Morte e Apamea (difficilmente raggiungibili in giornata con i mezzi pubblici). Uscendo dalla città l’autista deve fermarsi alla polizia per registrare lo spostamento. C’è sempre qualcosa che ci ricorda di essere in uno stato autoritario.

Muovendoci verso sud i campi sono ancora innevati. Tutte le TV trasmettono ininterrottamente immagini da Gaza e dalla Palestina occupata dagli israeliani, di guerra e sofferenze. Israele con diverse rappresaglie ha ucciso più di 400 persone di cui almeno 200 civili, soprattutto bambini.

Il paesaggio varia molto. Valle dell’Oronte, verdissima. Trattori e trebbiatrici, uliveti e frutteti. È una zona molto rigogliosa, terra rossa e umida, perfetta per le coltivazioni. È venerdì, giorno della preghiera: il muezzin canta e vediamo tutti gli uomini entrare ed uscire dalle moschee dei paesi che attraversiamo. Serjilla, la più bella delle Città Morte, ci sorprende. Anche nel senso letterale del termine, visto che si fa trovare piuttosto che lasciarsi trovare da noi! Abbiamo anche la fortuna di visitarla con una mattina di caldo sole dopo che ha nevicato. Il contrasto della neve sulla terra rossa è fantastico. È abitata solo da un pastore con la moglie e da tutte le pecore che li seguono. C’è anche una ragazza che cura due cavalli. Apamea con grigio sole e alcuni raggi che trapassano le nuvole: panorama surreale. Al museo nel caravanserraglio molti bimbi giocano con noi….per ricevere le caramelle! Nei siti visitati c’era molto fango, siamo lerci e abbiamo sporcato tutto il minivan all’amico curdo. Al tramonto ci rimettiamo in strada. Pernottamento ad Hama, attraversata dal fiume Oronte, dove la sera visitiamo le geniali Norie, ruote idrauliche in legno usate sin dall’epoca seleucide e romana, con cui l’acqua viene portata dal livello del fiume a quello delle terre circostanti da irrigare, 20 metri più in alto.

3 gennaio

La mattina Ale sta meglio e ci rallegriamo tutti. Abbiamo dormito molto. Girato l’angolo dell’ostello per arrivare al mezzo che ci hanno trovato per girovagare oggi, ci stupiamo tutti: è una Pontiac degli anni ’50, baule interminabile dove riusciamo a mettere comodamente tutti gli zaini, tre posti davanti e tre dietro, i sedili molleggiati. Visitiamo il Krak des Chevaliers, roccaforte situata in posizione strategica sulla sommità di una collina in mezzo ad un territorio verdissimo, che permetteva il controllo di tutta la regione ed in particolare della strada che collegava Homs a Tartous. I crociati iniziarono la costruzione nel 1142 e vi mantennero una numerosa guarnigione fino al 1271, anno in cui il sultano Baybar la conquistò. Ricomincia a piovere. Ci rimettiamo in moto con il riscaldamento della Pontiac che ci toglie il respiro, ma ci divertiamo molto. Puntiamo a sud est e raggiungiamo territori più aridi, ricompare il sole e ricomincia a fare caldo quando raggiungiamo il deserto roccioso. Rimettiamo gli zaini in spalla e a piedi ci incamminiamo sul sentiero che ci porta al monastero di Deir Mar Musa, dove siamo accolti con un pasto frugale buonissimo.

Il Monastero di Mar Musa si trova a circa 80 Km a nord di Damasco. Il corpo centrale, di origini antichissime (era una fortezza romana), è decorata da splendidi affreschi dell’XI e XII secolo. Abbandonato nel 1831, è stato restaurato grazie all’intraprendenza di un giovane gesuita romano, p. Paolo Dall’Oglio, ed è ora di nuovo abitato da una comunità monastica mista, composta da monache e monaci europei e arabi. Monaci, una monaca, persone che vengono da ogni parte del mondo, persone in ricerca, la ragazza di Aleppo “ma armena”. Molte lingue parlate correntemente da molti: arabo, francese, inglese, italiano, tedesco…è una comunità viva perché è attraversata da molte genti. Deir Mar Musa è diventato un luogo d’incontro per occidentali e arabi, e, grazie alla sua vocazione al dialogo e all’ospitalità, si propone come punto di riferimento per musulmani e cristiani di differenti confessioni. Il tramonto sul deserto è molto suggestivo. I miei uomini dormono tutti insieme in uno stanzone di pietra. Io devo invece salire camminando ancora 200mt sul sentiero, ho una cella – in realtà una camera singola molto bella con letto, tavolino, una candela e una vista mozzafiato sulla vallata desertica che sembra un quadro incorniciata dalle tende gialle – nel monastero delle donne. Vespri nella preziosa chiesa del XII secolo, molto intensi. Danae, figlia di una scozzese e di un guatemalteco, ci stupisce con il suo Tigrotto per il suo comportamento e autonomia. Ha solo 5 anni. Preghiera comune in differenti lingue. Lumi di candele. Spirito Santo. Grazia di essere qui. Osservo grata i miei compagni di viaggio. Mi paiono assorti. Stefano è rapito. Mi stupisce molto. Il suo cammino illumina e rinforza il mio.

Mi sorprendono gli orari particolari di questo monastero: sveglia non all’alba ma alle 7, preghiera mattutina prima di colazione e poi dalle 19 alle 20 meditazione in silenzio, poi vespri e cena alle 21.30. Cena comune nella tenda e scambio con Padre Paolo e con altri della comunità. Per andare a dormire (si gela!) salgo verso le stelle che qui sono così vicine.

4 gennaio

Ho lasciato la tenda scostata sicché l’alba mi ha svegliata. Sono rimasta a gustarmi il suono del silenzio. Ieri notte mi sono addormentata con la petite bougie di Madeleine: ho parlato di lei (nella biblioteca del monastero ci sono i suoi libri) con padre Paolo e con David, ragazzo francese che ha appena terminato una settimana di esercizi spirituali qui. Alle 8 messa con la comunità. È domenica. Molto sentita. La condivisione di alcune riflessioni costituisce il commento alle letture. Camminiamo sulla cresta del monte e andiamo dal pastore, che ci offre il tè con dei buonissimi biscotti e ci fa accarezzare un capretto appena nato, morbidissimo. Qui in Siria le pecore hanno un manto molto particolare. (….riflessioni personali e letture al monastero…). Scegliamo di fermarci qui ancora una notte.


5 gennaio

La mattina scendendo gli scalini di pietra per raggiungere il monastero centrale mi sento affezionata a questo luogo inondato dal sole, ci sto proprio bene. Colazione sul terrazzo in pochi. In comunità. Yogurt del pastore, olive piccolissime, marmellata fresca, pane e miele. Molti abbracci affettuosi. Il monaco Butros ci augura Pietro. Lasciamo il monastero camminando verso valle, ma la sua pace e la sua lentezza ci resteranno addosso.

Con un minivan raggiungiamo la città presepe Maalula, situata a circa 1.500 metri di altitudine, costruita come un vero e proprio alveare aggrappato alle rocce, ai piedi della catena dell’Antilibano, dove gli abitanti parlano ancora l'aramaico, la lingua in cui si esprimeva Gesù. La luce è bellissima: ci infiliamo subito nella gola di Santa Tecla e nelle viuzze tortuose del paesino fatto di case color pastello di terra e rametti. Alcune sono color indaco chiaro. Al monastero di San Sergio patrono della Siria, ubicato sulla rupe che sovrasta il villaggio, una ragazza ci fa bere un ottimo passito e le chiediamo di recitare per noi il Padre Nostro in aramaico. Suono dolcissimo. Girovaghiamo ancora un po’ per le viuzze e tramontato il sole rendiamo felice il proprietario della pasticceria facendo incetta dei buonissimi dolcetti-bombacalorica siriani (da mangiare la sera con il vino del monastero di San Sergio!). Pernottiamo nel convento di Santa Tecla, ospiti delle suore ortodosse che vi gestiscono un orfanotrofio dove ora ci sono 28 bambini e ragazzi. Scambiando qualche parola con una delle suore (non riusciamo a trovare una lingua comune per capirci) ci pare di capire che loro pregano dalle 24 alle 2, cenando alle 18. Decidiamo di unirci a loro per condividere la preghiera notturna… svegliati dalle campane a festa e i canti quasi gridati delle suore nel bel mezzo della notte scopriamo invece che questa notte è per loro grande festa, si celebra la messa solenne di mezzanotte per il battesimo di Gesù, la festa più importante per gli ortodossi. Condividiamo la celebrazione notturna osservando la tipica liturgia ortodossa in una chiesa tutta oro e colori. Al termine beviamo l’acqua benedetta e partecipiamo al ricevimento con tutte le persone del paese, ospiti della Madre Superiora, che ci accoglie molto affettuosamente, parla con noi in perfetto inglese e ci benedice. Siamo molto felici di aver condiviso ancora una volta la magia di una comunità. Questa notte la tradizione vuole che i bambini facciano il bagno nella fontana del cortile del convento con l’acqua benedetta, dopo che tutte le persone se ne sono andate. Noi che ci dormiamo abbiamo il privilegio di vedere che portano secchi di acqua bollente per sciogliere il ghiaccio, ma poi lasciamo a loro l’intimità di un gesto così significativo.

Rendiamo grazie per la spiritualità e la lentezza che han pervaso questi ultimi giorni.


6 gennaio

Con il “service”, pulmino del servizio pubblico, vecchissimo, alto e stretto, tutto colorato, raggiungiamo Damasco. Dopo aver guidato (noi!) il taxi alla ricerca di un posto dove passar la notte, nel caos della città di 5milioni di abitanti – cui non siamo più abituati – prendiamo l’autobus per Bosra, dove arriviamo dopo 2 ore e mezza con un caldo allucinante. Bosra è un’antica città fondata dai Nabatei, resa splendida nel periodo romano. Il teatro-fortezza che conteneva 16.000 spettatori e la cittadella in basalto nero meritano veramente una visita. Nei vicoletti della città vecchia abita la povertà…i bimbi depredano tutte le caramelle rimasteci. Aspettando l’autobus per rientrare a Damasco beviamo un tè e l’immancabile Al Jazeera trasmette immagini sempre più sanguinarie e crudeli…gli israeliani continuano ad ammazzare anche i bambini a Gaza… Rientrati a Damasco ceniamo al Beit Jabri, nel cortile alberato d’aranci della bellissima casa del 1700. la nostra ultima cena siriana. Shawarma, focaccine sottili, numerosi meze, melanzane, pomodori, olive, humus. Mangiamo benissimo spendendo pochissimo e incontriamo alcuni amici di Mar Musa che riempiono di gioia la nostra serata. Siamo felici e stiamo bene.


 7 gennaio

Risveglio con calma. Colazione al mitico bugigattolo adiacente all’albergo con tè e spremute abbondanti ed economiche. Visita al museo nazionale. Splendide e modernissime le collane colorate ritrovate nelle tombe, stupendo il tesoro di Ur. Preziosità del tassellino con tutto l’alfabeto cuneiforme che ha permesso di capire molti scritti rinvenuti negli scavi archeologici. Stupefacente la sinagoga tutta dipinta rinvenuta a Dura Europos. Visita alla moschea di Suleyman. Altro tè dal nostro amico e poi andiamo in aeroporto, facendo l’ultima divertente contrattazione con il tassista convinto a caricarci tutti e cinque, sei con lui, in un’auto da quattro. I siriani sono veramente un popolo accogliente! La Siria è certamente un Paese che merita di essere visitato. A livello paesaggistico, culturale, ma soprattutto umano. Senza retorica si può affermare che la Siria è un significativo incrocio della storia: dai popoli mesopotamici fino ai crociati, ai califfi musulmani, ai turchi ottomani, passando per Alessandro il Grande e i romani: tutti sono passati per la Siria e hanno lasciato testimonianza di sé. Oggi l’elemento più vivo è la profonda ospitalità. Malgrado la difficoltà di capirsi con le persone del posto che poco masticano l’inglese, si riesce sempre a superare i piccoli inconvenienti perché si può contare sulla disponibilità del tutto eccezionale dei siriani. Più di tutto, la cosa che rende davvero straordinaria la Siria è proprio la disponibilità che i siriani non perdono occasione di offrire, in maniera del tutto disinteressata. Sarà che ancora il contatto con i turisti è poco radicato e comunque ben circoscritto, sarà che la cultura dell’ospitalità è ancora viva nella società, resta il fatto che abbiamo potuto godere della libertà di andare in piena notte per viuzze neanche tanto illuminate, di girovagare per tutto il Paese e sentirci comunque protetti e contare sempre sul sincero aiuto delle tante persone incontrate.

2 dicembre 2009

ARMENIA. PERCHE' ARMENIA?

di Francesca Panza e Guido Callierotti







La domanda è sempre quella. Lo era prima di partire, lo è adesso, ma soprattutto, lo era mentre in Armenia c’eravamo. E questo un po’ stupisce, un po’ fa ridere e un po’ fa pensare.

Di risposte ne abbiamo date molte fin’ora e molto diverse fra loro. Fondamentalmente non c’è una vera risposta se non: perché non c’eravamo mai stati.

A dir la verità il viaggio è partito un po’ più indietro. L’aereo ci ha portato solo a Istanbul ( così doveva essere, non è che avesse finito la benzina) e da lì è stato un susseguirsi di mezzi pubblici sempre più improvvisati, pittoreschi, aleatori, inefficienti, scomodi, tipici.

Vi potremmo dire che la partenza da Istanbul sottende significati simbolici (estrema propaggine sud-orientale dell’Europa, il ponte fra due mondi, il passaggio della via della seta o dell’Orient Express ecc.) ma non è vero niente. La realtà è che ci attirava un traghetto che salpava dal Bosforo e andava fino a Trabzon, Trebisonda, a est sul mar Nero ed inoltre Istanbul è sempre affascinante. Peccato che il traghetto non c’e’ più da 3 o 4 anni, quindi al fascino di Istanbul sono seguite 19 ore consecutive di viaggio in pullman, Turco. Trabzon è una città dal nome intrigante, dalle strade intrigate e dalle origini dimenticate. Poco di antico in mezzo a case moderne e perlopiù fatiscenti, ma ha una vitalità che ci ha stupito ed ha una basilica, Aya Sophia, con degli affreschi stupendi.




Di lì in breve si arriva al confine con la Georgia, un tempo spessa barriera fra un paese della NATO e l’Unione Sovietica, oggi solo dimora di un po’ di sbirri di periferia. Uno di questi guarda il passaporto e dice “Atalanta” e tra noi pensiamo “ora sì che questa gente ha veramente conquistato la libertà!”
L’attraversamento della frontiera è comunque fisicamente provante, dopo aver sgomitato con le accanite signore georgiane e azere sotto un sole a picco, decidiamo per una pausa balneare nella St Tropez del Mar Nero. Descritta dalla guida come un ottimo biglietto da visita per la Georgia, Batumi, ci h lasciato un po’ “perplessi”, ma ancora più “perplessi” ci ha lasciato il viaggio in pulman verso la capitale: 6 ore stipati su un transit, storditi dal caldo e dalle sigarette dei vicini. Tiblisi è una piacevole sorpresa. Consigliamo a chi passi nei paraggi di fare una visita. Da qui, finalmente, raggiungiamo l’Armenia, meta del nostro viaggio… e la qualità dei mezzi di trasporto peggiora ulteriormente. Il primo taxi che prendiamo, prima di caricare i nostri zaini, toglie dal baule un quarto di mucca… al di là dei taxi (n.d.a. ci si muove praticamente solo in taxi, tutti quelli che hanno l’auto arrotondano le entrate in questo modo. Di pulman ce ne sono pochi e vanno solo verso la capitale!), il primo impatto è desolante. Sotto un cielo grigio attraversiamo paesi di edifici fatiscenti e fabbriche cadenti. Giumri, la prima città dove ci fermiamo, manifesta ancora i segni del terremoto che l’ha colpita negli anni ’80. E la ricostruzione si è fermata con la caduta dell’Unione Sovietica.
In questa città facciamo conoscenza di uno dei maggiori esponenti della pittura armena. Purtroppo nello zaino non ci sta nessun dipinto!




Appena il tempo volge al bello anche il paesaggio appare più attraente. Cominciamo a visitare i famosi monasteri nei quali si respira aria ti tempi antichi. La natura è diversa da come ci figuravamo questo paese: boschi di un verde rigoglioso, altipiani coperti di prati e solcati da profondi canyon. Dentro questi, le impervie strade danno modo ad ogni taxista di mostrarsi campione di rally (un saluto particolare va a Raman!). In questa zona (altipiano di Stephanavan), ci raccontano, si faceva formaggio svizzero che riforniva tutta l’Unione sovietica.. di tutto questo oggi rimane solo della simil feta.

Proseguiamo la nostra strada verso Dilijian, fra fantastici boschi ma sotto un’acqua battente e un vento freddo che ci trova assolutamente impreparati. Lasciamo il nord piovoso più per una svista che per una consapevole decisione.. e arriviamo a Yeganazdor. Il paesaggio cambia rapidamente, è tutto molto più arido e secco. Ai bordi delle strade bancarelle che vendono meloni, angurie e ancora meloni.







Siamo gli unici a scendere a Yeganazdor. Paesino piccolo, senza particolari bellezze ma
anche senza i casermoni a cui ci eravamo abituati. La guida ci consiglia un B&B di un armeno canadese.. viene a prenderci un’intera famiglia, peccato che del canadese non c’è ombra.. l’unico che parla un po’ di inglese è il ragazzino di 13 anni. Ci portano in una casa di campagna, tra le colline irrigate fuor dal paese, paesaggio bellissimo. Stufi di essere sempre scorrazzati in giro decidiamo per un breve trekking. La notizia sconvolge i nostri ospiti. In men che non si dica la spedizione è pronta: con noi il figlio maggiorenne con coltello da rambo, la nipote interprete, il figlio piccolo, il cugino russo e la mamma con viveri e vettovaglie. La giornata è piacevole tanto per la compagnia che per il posto. Salutiamo la family con un po’ di dispiacere e via verso il lago. Disavventura al passo, il taxista finisce il gas poco prima del colle ed eccoci legati ad un camion con un fil di ferro.

Sevan ci sembra troppo turistica per trattenerci (naturalmente parliamo di turismo armeno) e all’alba del giorno seguente partiamo per la scalata al vulcano Aragats, 4000 e passa metri.

Partenza dal famoso osservatorio dei raggi cosmici. Peccato che anche questa punta di diamante dell’era Sovietica è stata lasciata andare e la maggior parte degli edifici sono oggi diroccati.

La mattina alle 5 sveglia e con le nostre scarpette da ginnastica e felpe partiamo alla volta del cratere. Qui ci sorprende la neve e immensi geroni, ma noi impavidi puntiamo alla cima più alta, la nord. La cresta per cui abbiamo optato (di sentieri neanche traccia) si rivela essere un’ammasso di sfasciumi, ci tocca girare i tacchi poco sotto la cima, per lo meno conquistiamo la Sud!




Yerevan, la capitale è una città dal centro moderno e ripulita. Grandi viali alberati e piazze popolate. Qua finalmente qualcuno parla inglese (comunque raro). La sera, con la padrona di casa, guardiamo il telegiornale. Si parla di: monte Ararat, confini chiusi con la Turchia e gli Armeni della diaspora. Temi sempre in sottofondo per tutta la vacanza. Passiamo il nostro tempo libero fra le cartoline e i mercati di frutta fresca, secca e candita. Chiudiamo in dolcezza. Buonanotte e buona fortuna.


 

24 novembre 2009

ULTRA TRAIL DU MONT BLANC


Che cos’è l'UTMB?
Giro del Monte Bianco, 3 nazioni, 166 km,  9400 m di dislivello positivo in semiautonomia, tempo max 46 ore, max 2300 corridori ammessi alla gara…

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 Con un po’ di fierezza e molta umiltà… di Thomas Capponi

…tutto ha inizio ad Agosto 2007, quando, con il socio Ale, ci stiamo recando verso Chamonix per tentare il Bianco (tentativo poi fallito a causa del maltempo) dai Grands Mulets. Fermandoci a Courmayeur per fare colazione ho notato delle bandiere raffiguranti l’omino stilizzato, tutto affannato in un’evidente corsa, con sotto un titolo che era tutto un programma “THE NORTH FACE ULTRA TRAIL DU MONT-BLANC”. Già facevo fatica a leggerlo tutto d’un fiato, figuriamoci poi a capirne il significato…
Avendo in testa un altro obiettivo (il Bianco!) mi riprometto che appena sarei tornato a casa avrei approfondito la materia…detto, fatto! Il tempo di capire come girava il fumo (!) e a Gennaio 2008 mi trovo iscritto, non senza difficoltà (iscrizioni on-line chiuse in 10 secondi!), alla CCC: 98km da Courmayeur a Chamonix con circa 5.600 mt D+.
A quel punto dovevo preparare una tabella che mi avvicinasse il più possibile allo sforzo che avrei dovuto affrontare: per il dislivello, abitando in pianura quindi non potendo fare dislivello nel corso della settimana, ho unito la passione per lo scialpinismo con le uscite nel w/e cercando di fare più metri possibili; per la distanza, sono partito da distanze che il mio fisico conosceva già (fino a 50km), raggiungendo pian piano la soglia dei 100km, al Passatore (Firenze –Faenza).
Finalmente arriva Agosto 2008 ed il giorno prima della gara mi reco a Courmayeur con la mia famiglia: la moglie Stefy –incinta- e Gaia la prima figlia. Là ad attenderci c’erano papà Pulì e consorte Mery.
La mattina della partenza l’emozione è alta e la gara la corro “con la paura di mettere un passo davanti all’altro”, in quanto non so quello che mi aspetta… Partito da Courmayeur alle 11, arrivo a Chamonix alle 5.18 della mattina dopo. Un arrivo in sordina, con solo il babbo ad attendermi all’arrivo e gli addetti ai microchip… La soddisfazione è tantissima, non solo sono riuscito a finire la gara ma l’ho chiusa egregiamente (per i miei tempi) ed ho vissuto un’esperienza….da ripetere! Torno in Italia eccitatissimo all’idea di correre “la lunga”, 166km 9.600mt D+.
Come un anno prima mi attacco ad internet e studio bene quali sono i requisiti minimi per la partecipazione, un rapido calcolo: ci vogliono 4 punti, la CCC me ne ha dati 3, me ne manca 1!! Una delle poche gare che può darmi quel punto a stagione ormai finita, Settembre, è la Scaccabarozzi. Quindi, con nelle gambe la CCC, vado a correre questa gara.
L’inverno è dedicato al mantenimento di una certa velocità di corsa acquisita e a mettere su quanti più mt di D+ possibile, perché poi so che in primavera si ricomincia…
Così le gare si susseguono: ½ maratona di Treviglio; maratona di Verona; 50 km lungo l’adda; 100km di seregno; sentiero 4 Luglio… e l’apice pre-UTMB lo raggiungo partecipando al campionato mondiale 24h a Bergamo, dove il mio obiettivo è quello di eguagliare (o superare) il kilometraggio dei 166km che dovrò affrontare. Obiettivo raggiunto (per la cronaca: 170 km).
Gli allenamenti che mi trovo ad affrontare sono i più disparati: lunghi alla sera dopo il lavoro, ripetute alla mattina alle 6 prima di iniziare il lavoro, uscite con il frontalino in montagna dopo il lavoro, allenamenti sul tapis roulant in palestra nella pausa pranzo… cercando di rubare meno tempo possibile a famiglia e lavoro.
In men che non si dica è già Agosto ed è già ora di partire per Chamonix. Partenza h. 5 da casa per iniziare a correre alle 18.30… Anche in questa trasferta ho fortunatamente dei supporters personali: la moglie Stefy, Gaia la prima figlia, Nicolò che nel frattempo è nato…e si fa sentire, papà Paulì e Mery. La giornata che dovrebbe essere di riposo trascorre tra preparativi e burocrazie varie quindi arrivo all’ora X già stanco.
H. 18.10, non ci sono più scuse, saluto i miei familiari, sapendo che li rivedrò Champex-Lac dopo 123 km, in territorio svizzero, non prima di 24h, nascondendo gli occhi lucidi dietro gli occhiali da sole…
Il conto alla rovescia giunge e dopo il via so che sarà un’estenuante, bellissima, logorante ricerca dei miei limiti.






La partenza è uno dei momenti più belli della gara: al di là dei 2.300 corridori, ci sono due ali di folla internazionale per almeno i primi 3 km del tracciato, che ti incitano e ti urlano “Bòn Courage, Bòn Courage” (espressione che avevo già imparato l’anno prima a conoscere).
I primi km scivolano davanti, siamo tutti in fila, sorpassare o lasciar passare è difficoltoso, così ci si adatta ad un’andatura “forzata” che magari non ti appartiene.
Arriva il primo ristoro, in un paese, tutto il villaggio è in festa, tutta la gara, su tutto il percorso è vissuta come una festa, è questo il bello!
Poco dopo è tempo di tramonto, un tramonto spettacolare sui ghiacciai del Monte Bianco, che diventano tutti rosa.
La prima notte in gara è passata in modo strano: mi ricordo benissimo della fitta nebbia che non ci permetteva di vedere le balise (segnali rinfrangenti) avanti a noi, costringendoci spesso a dover tornare sui nostri passi, ne tanto meno ci permetteva di correre; ma non ricordo altrettanto bene i luoghi dove sono transitato, gli eventi vissuti e la fatica sopportata. È come se ci fosse stato un black-out.
Lo scollinamento tra la Francia e l’Italia ha portato non solo un traguardo mentale ma anche la luce del nuovo giorno, infatti proprio sulla discesa che porta in una della valli di Courmayeur, la Val Veny, ha iniziato a sorgere il sole, inondando di luce prima le alte vette, poi anche gli angoli più reconditi delle vallate. Il sole ha portato in me nuova energia e voglia di proseguire.
Giunto al primo ristoro in terra italica ho constatato che molta gente come me ha sofferto durante la notte e molti di questi non hanno proseguito.
Ancora qualche km ed ecco Courmayeur, posto a 78km, meno delle metà della corsa è punto cruciale del percorso in quanto qui sono stati trasportati dei sacchi da Chamonix per il cambio, qui si può mangiare, dormire, farsi curare, farsi massaggiare… per quanto mi riguarda opto per un cambio vestiti ed un buon pranzo (sono le 9 di mattina!) a base di pasta, formaggio, pane, mocetta, yogurt, coca cola, caffè… dopodiché riparto.
Si susseguono poi salite e discese verso il rif. Bertone, rif. Bonatti, Arnuva, Grand Col Ferret che segna lo spartiacque tra Italia e Svizzera, dopodiché una lunga discesa, che purtroppo non ho potuto correre a causa dei quadricipiti “impietriti”, porta verso il paese di La Fouly, nel Vallese. Da qui ancora un lungo tratto ci porta a Champex-Lac.
Sul percorso, prima di Champex, trovo mio papà che mi è venuto incontro, quindi condividiamo un tratto insieme fino al ristoro. Come Courmayeur, anche Champex, posto al 123° km, è un passaggio clou del percorso, infatti oltre a tutti i servizi già citati, da qui partono le ultime tre salite che sono ritenute le più dure.
Sotto il tendone ho modo di riposarmi in compagnia di tutti i familiari, di mangiare con calma e cambiarmi. A differenza di quanto consigliatomi da tutti, decido di ripartire subito senza dormire, perché ho paura che se mi addormentassi, al risveglio, non sarei più in grado di continuare.
Riparto quindi in compagnia di altri tre concorrenti, già conosciuti in altre gare, e appena dopo aver fatto i primi 50mt di dislivello della terzultima salita mi accorgo di aver fatto un grosso errore a non dormire. I colpi di sonno sono continui, pesanti e pericolosi! Visto che anche gli altri sono nelle stesse condizioni facciamo a turno a tenerci svegli. Confidiamo in un ristoro che è posto su un tratto in piano in cima alla salita, per bere del caffè. Nonostante la quantità elevata di caffeina introdotta in corpo gli effetti lasciano a desiderare e la discesa risulta davvero difficile. Decidiamo allora di sederci per 5 minuti a bordo del sentiero ed accovacciarci con la testa tra le gambe, a turno, per riposare un pò, ma i risultati sperati non arrivano. La tentazione di fermarsi a dormire è alta, ma non è possibile, sarebbe troppo pericoloso: è notte, fa freddo e il terreno è impervio. Decido allora di raggiungere il primo posto utile e di dormire un po’, non mi interessa in che condizioni, voglio solo essere al sicuro… Questo posto sembra, ed è, così distante tanto da farmi sembrare una via crucis i km che ci separano. Finalmente vediamo le luci, le case si avvicinano, giunto in prossimità di un passaggio in mezzo ad gruppo di 5-6 case mi congedo dagli altri e decido di fermarmi. Mi siedo fuori da un’abitazione, spalle al muro, testa tra le gambe e subito mi addormento. Nel frattempo mi raffreddo e mi vengono i brividi. Decido allora di approfittare di una sdraio che si trova proprio di fronte a me, fuori da un camper. Così mi siedo lì, almeno è all’asciutto e in una posizione decente. Nel torpore del dormiveglia mi accorgo che i padroni di casa, i camperisti, mi stanno (giustamente) controllando e così non mi dicono nulla. Raggiunto questo lusso mi lascio scivolare nel sonno. Sonno che viene ben presto interrotto da una sorpresa, una vera sorpresa: un volontario che si aggirava lì (erano circa le 2 di notte) mi copre con sacco a pelo, che goduria! Il tempo di riscaldarmi e di pensare che “ho già ripreso le forze” ed eccomi di nuovo in cammino, ho dormito 15 minuti in totale!
Dopo circa mezz’oretta raggiungo il ristoro di Trient e lì, dove potrei dormire, mi limito a mangiare e bere, in quanto mi sento bene, dopodiché riparto per la penultima salita. Altro gravissimo errore! Subito dopo la partenza mi accorgo di avere ancora sonno, molto sonno. Ma adesso il problema è più grave: ho sonno, sono solo e non posso permettermi di sbagliare un solo passo. Decido allora che al primo posto utile organizzo una sorta di bivacco, con il telo termico, tutti gli indumenti che ho e la tuta di carta che ho nello zaino. Sorpasso un fienile, che molto mi ha tentato, ma di cui per fortuna non ne ho approfittato. Intanto è da 48h che non dormo, inizio ad avere le allucinazioni: vedo doppio, i sassi mi sembrano persone, tende… mi ricordo dall’anno precedente che in cima alla salita, dopo un lungo tratto in falsopiano, ci dev’essere un posto di controllo: spero abbiano una tenda! Cammino lentamente, faccio dei passi e poi mi accorgo che ho gli occhi chiusi, per fortuna ho i bastoncini. Vedo la luce oltre un colletto, è il posto di controllo. Man mano mi avvicino mi accorgo che quello che desidero non c’è! Nessuna tenda, c’è solo un gazebo con il tappeto per il rilevamento del microchip ed un minuscolo fuocherello, con della legna portata da chissà dove (siamo a più 2000 mt e gli alberi non crescono). Attorno al fuoco ci sono seduti tre concorrenti ed uno è sdraiato su un fianco. Mi siedo anch’io, ho troppo sonno. Appena mi siedo i tre se ne vanno, quindi prendo il loro posto, sdraiandomi, come l’altro. Mi addormento. Un forte urlo, poco dopo, mi sveglia. È uno degli addetti al cronometraggio che mi ha dato la sveglia, non so perché, probabilmente perché non voleva che mi addormentassi a lungo, a causa del rischio di assideramento che ci può essere. Frastornato, incazzato per il trattamento, mi rimetto in piedi e riprendo in qualche modo la discesa, ho dormito sì e no 10 minuti. È una discesa orribile, interminabile, mi pare un supplizio! Intanto continuo ad avere le solite allucinazioni e i colpi di sonno, che mi rendono davvero difficile andare avanti. La tentazione di fermarsi a dormire è tanta, davvero tanta. Ma so che non posso, non devo farlo e per questo continuo, facendo un grossissimo sforzo di volontà.
Man mano che scendo inizia ad albeggiare e con la luce si illumina anche la mia mente. Da dietro sento arrivare due, dei tre, con cui avevo fatto la salita precedente, che nel frattempo si erano fermati a dormire, quindi mi aggrego nuovamente a loro e così, quasi per magia, ricomincio a correre, come se fossi fresco!
Giungiamo al ristoro di Vallorcine, prima dell’ultima salita. Mangio, bevo e riparto da solo ostinato a finire il prima possibile questa gara. Mi sento bene, il sole mi ha fatto rinascere ed è come se mi avesse annullato le fatiche fatte nelle 35h precedenti… sull’ultima salita riesco a superare una cinquantina di concorrenti, sto davvero bene! Iniza l’ultima discesa, vado bene, sono lucido ed in forma. Ancora una piccola salita prima di quello che è davvero l’ultimo ristoro e dopo del quale c’è solo ed unicamente discesa (o piano). Qui trovo mio papà, che si è fatto una bella sgambata per venirmi incontro. Quello che riesco a dirgli è unicamente “ti fa niente se vado?” e così giù a capofitto verso Chamonix, voglio poter sfruttare questo momento di euforia. Corro e corro, non mi sembra vero di avere nelle gambe 39h e poter ancora correre così. È incredibile quanto la mente umana possa fare!
Decido di godermi gli ultimi km, quel che è fatto è fatto, les jeux sont faits, rallento il ritmo, cammino un po’, entro in paese e già da lì sento venire dalle macchine che passano gli incitamenti. Bravò, bravò ricomincio a corricchiare, per me è il giro d’onore. Un anello di circa 1km nel paese è completamente presidiato dal pubblico che ti incita e tu sai che ce l’hai fatta e che è stata dura. Curva a sn, curva a dx e poi ancora curva a sn. Eccolo lo striscione, sotto cui migliaia e migliaia di appassionati di tutto il mondo desidererebbero transitare. Rallento ancora, vedo Stefy coi bambini e Mery che mi applaudono. Mi fermo, un bacio a Stefy, prendo in braccio Nicolò (Gaia si rifiuta…) e taglio il traguardo, dopo 40h e 16min. Così. Con un po’ di fierezza e molta umiltà…






7 novembre 2009

LA PRIMA SCIATA...


Breve sciata in polvere per inaugurare la nuova stagione di scialpinismo...

Piz Lagalb dal Passo Bernina

Davide, Elena e Thomas





 

1 ottobre 2009

ECUAD'OR


La sveglia suona, sono le 6 del mattino! Non pensavo che in vacanza mi sarei svegliato così presto, ancor prima dell’orario di lavoro in Italia. Ma lo faccio volentieri: oggi andiamo a San Francisco! Non siamo però in California! La comunità di San Francisco si trova in Ecuador, nella regione del Cotopaxi a circa 3200 metri di quota. Gli abitanti della comunità devono risolvere un problema fondamentale: è diminuita la portata della sorgente di acqua potabile e di conseguenza nelle case del paese ne arriva troppo poca per gli usi quotidiani. Visto che lo stato non ha i mezzi sufficienti per poterli aiutare ecco che si sono rivolti ai volontari italiani dell’operazione Mato Grosso.









Cos’è l’operazione Mato Grosso?


L'OMG è un movimento a livello nazionale rivolto soprattutto ai giovani, ai quali si propone di lavorare gratuitamente per i più poveri. Attraverso questo impegno, essi iniziano un cammino educativo che li porta a scoprire e acquisire alcuni valori fondamentali per la loro vita: la fatica, il lavoro gratuito, l'impegno sociale, la coerenza tra le parole e la vita, il gruppo, il rispetto e la collaborazione con gli altri, la sensibilità e l'attenzione ai problemi dei più poveri, il tentativo di imparare a voler bene.


La struttura del movimento si articola attorno a due dimensioni tra di loro complementari:

l'Italia,dove ci sono numerosi gruppi di ragazzi (circa 1500 tra giovani e famiglie) che si riuniscono e lavorano per raccogliere i fondi necessari al finanziamento delle attività svolte dai volontari nelle spedizioni latino-americane. Tutti i volontari offrono il loro lavoro e la loro disponibilità in forma COMPLETAMENTE GRATUITA, autofinanziandosi al fine di devolvere completamente quanto raccolto con il lavoro alle spedizioni in America Latina.

Il lavoro dei ragazzi riesce a coprire finanziariamente la maggioranza dei fabbisogni, la restante parte dei fondi viene raccolta attraverso gli aiuti delle famiglie/amici dei volontari,iniziative degli adulti rivolte a sostenere singoli progetti, offerte raccolte nelle parrocchie ecc.

Esistono lavori di gruppo svolti costantemente durante la settimana (verniciature, imbiancature, raccolte carta nei negozi, pulizia scale dei condomini, sgomberi e traslochi, pulizie e mantenimento giardini, taglio legna...) e campi di lavoro svolti nei fine settimana e durante i periodi di vacanza; i campi riuniscono giovani di gruppi diversi e i lavori sono più impegnativi (costruzione, agricoltura, gestione rifugi, grandi raccolte carta, stracci, ferro, sistemazione sentieri e baite di montagna); i campi sono occasione di confronto e di riflessione, consentono di approfondire le proprie motivazioni e di conoscere le esperienze e il lavoro missionario attraverso l'ascolto dei volontari rientrati dall'America Latina.


l'America Latina,dove ci sono numerose missioni (più di 80) nelle quali i volontari OMG (giovani, famiglie, sacerdoti) prestano servizio a favore dei poveri in zone particolarmente depresse e isolate di Brasile, Bolivia, Perù ed Ecuador. Si realizzano interventi in campo educativo (scuole agricole, scuole professionali per l'intaglio del legno, tessile, scuole per infermiere...), religioso (chiese, oratori, seminari), sanitario (ospedali, ambulatori, infermerie...), sociale (creazione di cooperative, costruzione di case, ponti, strade...). I ragazzi meritevoli, scelti tra le famiglie più bisognose, ricevono istruzione, formazione professionale, vitto e alloggio. I volontari (circa 300) prestano la loro opera in forma totalmente gratuita, senza ricevere nessun compenso economico e per tempi più o meno lunghi: si va da permanenze brevi di uno o due anni, fino a presenze stabili di dieci, venti e più anni (volontari permanenti).




Ma ritorniamo a noi… In Ecuador esistono circa 17 missioni, delle quali buona parte si trovano in un’area circoscritta vicino alla città di Pujili, nei pressi della più conosciuta Lacatunga, a due ore circa dalla città di Quito, capitale del paese. La casa campesina di Pujili rappresenta il punto di riferimento per tutte le missioni grazie alla sua posizione strategica: qui arrivano i farmaci, il materiale edile, le provviste alimentari, il legname, il ferro e tutto ciò che è necessario nelle varie missioni. Ogni giorno partono due camion diretti alle varie case dell’OMG.

E’ proprio da Pujili che partiamo per la comunità di San Francisco dove trascorriamo un’intera giornata insieme a tutti gli abitantti del paese con l’obiettivo di installare una condotta di ottocento metri da una nuova sorgente fino ad una cisterna già esistente. A cavallo arriviamo a 4200 metri di quota dove i campesinos nei giorni precedenti hanno già preparato uno scavo di 800 metri di lunghezza, 1 metro di profondità e 30 centimetri di larghezza, tutto rigorosamente a mano! Una giornata indimenticabile, fredda, ma riscaldata dalle immagini che si susseguono: madri che hanno camminato per due ore con i neonati avvolti in una coperta sulle spalle; bimbi saliti sul dorso di un lama che giocano nei prati mentre i più adulti lavorano nella costruzione della tubazione. Durante la prima parte della giornata, in realtà, sono poche le persone che lavorano in quanto è necessario innanzitutto convogliare l’acqua dalla sorgente nel primo tubo e successivamente collegare uno ad uno tutti gli altri. Ma quando finalmente il serpentone di tubi viene appoggiato nello scavo allora tutta la comunità si attiva, ed è spettacolo! Sono più di cento queste figure colorate che armate di badile riempiono lo scavo di terra: adulti, bimbi ed anziani, nessuno si risparmia alla fatica e stupisce il sorriso e le continue risate che rendono vivacissimo il lavoro di questa gente!

A fine giornata l’acqua, come per miracolo arriva nella cisterna ed il flusso aumenta in modo consistente. Questa comunità non ha nessun mezzo materiale per poter ripagare economicamente il lavoro finanziato dall’OMG ma il loro sorriso è la miglior forma di ringraziamento che ci si possa aspettare.









Trascorriamo poi alcuni giorni visitando alcune missioni situate attorno al vulcano Quilotoa percorrendo a piedi la distanza tra una casa e l’altra. I volontari italiani ci accolgono sempre con grande ospitalità e ognuno di loro ci mostra con grande umiltà le varie strutture dove vengono svolte le molteplici attività di volontariato. Solitamente la missione ha come fulcro l’abitazione dove vive la famiglia italiana che gestisce la missione stessa; vicino alla casa c’è sempre una chiesa o quantomeno una cappella; si trovano poi altre strutture quali l’asilo, la scuola, il tallier, la cooperativa dove si producono i mobili, il vetro o quella tessile. Attorno alle strutture ci sono spesso aree di verde, serre, orti e spazi per la ricreazione. In alcuni casi si tratta proprio di strutture veramente confortevoli, ospitali e soprattutto funzionali. La presenza del Mato Grosso ha come principale obiettivo quello di dare un’opportunità ai giovani di lavorare nei luoghi dove sono nati senza doversi trasferire nelle grandi città perdendo le proprie radici. L’assistenza medica, l’istruzione ed altri servizi primari sono sempre in primo piano per chi opera in questi luoghi.





Il nostro viaggio in Ecuador è stato semplicemente una vacanza, sarebbe presuntuoso affermare che abbiamo lavorato. Sicuramente questa esperienza ci ha permesso di avvicinarci maggiormente alla realtà di un paese che ha caratteristiche completamente diverse dall’Italia. A volte leggere, ascoltare e documentarsi seduti alla propria scrivania non ha niente a che fare con un’esperienza vissuta sul campo. Ecco allora che se non altro il nostro viaggio in Ecuador ci ha dato l’opportunità di confrontarci con problemi e realtà prima sconosciute, nella speranza di avere la forza, soprattutto morale, di impegnarci maggiormente in questa organizzazione di volontariato.